Ero sicuro che le immagini, allora latenti, sarebbero risultate diverse da quelle che siamo abituati a vedere sui maschili o sui femminili.
Mesi dopo, per presentare una mostra di foto che formavano già buona parte di questo libro, avrei scritto: “Secondo un’antica tradizione orientale: ‘L’uomo può osservare il proprio riflesso solo chinandosi sull’acqua di un ruscello. E anche il cuore dell’uomo deve chinarsi sul cuore del suo simile per osservare se stesso’. Questo è il senso del reportage di Maria Paola Gabusi: le sue fotografie sono un modo di osservare e interpretare. Così come per le casuali modelle è un modo di scoprirsi – non solo reale – di specchiarsi in un obiettivo, che, come l’acqua di un ruscello, come il cuore, riflette emozioni e personalità”.
Il tono è da catalogo, da introduzione di mostra. Il senso, però, è corretto. Definisce ciò in cui s’è trasformata l’idea nata in quella spiaggia di Capo Verde, quando suggerii a Maria Paola di realizzare una serie di foto di seni.
Non di donne, di seni.
Devo ammettere che all’inizio era semplicemente una provocazione, nemmeno un’idea, solo un argomento per ingannare l’attesa. Che Maria Paola riprese come tale. E così andammo avanti per un po’, ragionando sul titolo del libro: si sarebbe dovuto chiamare, per l’appunto, “Le mille e una tetta”. Nei giorni seguenti divenne un tormentone, che coinvolse colleghi e amici residenti nelle isole. Perlopiù ci scherzavano sopra, soprattutto un altro fotografo, incerto su come considerare Maria Paola: una collega, una concorrente, un paio di grosse tette. Tutto sommato, però, dopo l’ennesima battuta con conseguente proposta di fornire una modella, erano in molti ad ammettere che sì: era una bell’idea. Poco a poco, anche noi cominciammo a pensare che forse era proprio un’idea.
Tornati in Italia, personalmente non ci pensai più. Cosa che mi capita spesso, e